“Un dato è assolutamente certo: non possiamo aspettare il 2156 per una vera parità di genere nel nostro Paese. Dobbiamo correre, correre, correre. E soprattutto guardare al Recovery come un’occasione straordinaria per incidere su tutti i punti di criticità in fatto di occupazione femminile e diritto delle donne al lavoro. La libertà e l’autonomia delle donne sono adesso. Il da fare è chiaro: questo obiettivo deve essere trasversale a tutti gli assi che caratterizzano il rilancio del Paese e i risultati andranno costantemente monitorati per essere nella condizione di rafforzare e correggere anche in corso d’opera la strategia messa in campo”.
Teresa Bellanova, viceministra alle infrastrutture e mobilità sostenibili, presidente di Italia Viva, non ha dubbi: serve un nuovo welfare per sostenere, rilanciare, implementare l’occupazione femminile nel nostro Paese, ridurre il gender gap, garantire alle donne, a tutte le donne, di poter essere valore aggiunto dovunque, in tutti i settori sociali, economici, produttivi, nei gangli istituzionali come nei luoghi della politica.
Vice Ministra Bellanova, i dati Eurostat diffusi in questi giorni sono preoccupanti: vera parità di genere nel nostro Paese non prima del 2156. A causa della pandemia che ha colpito duramente soprattutto l’occupazione femminile.
Preoccupanti è dire poco. Confermano quanto già altri Osservatori autorevoli ci hanno restituito: le donne hanno pagato e rischiano di continuare a pagare, se non metteremo in campo strategie e strumenti adeguati, il prezzo più alto della pandemia e lo scotto di un Paese che non riesce a ribaltare un paradigma antichissimo e fuorviante.
Quale? Abbiamo sempre detto, ed è comodo pensare, che la penalizzazione delle donne sul mercato del lavoro fosse l’esito della crisi economica che nei decenni scorsi si è abbattuta sul nostro Paese. E’ vero esattamente l’opposto: fra i motivi della crisi economica, la carenza delle donne è una causa, non un esito. E d’altra parte non smette di dircelo l’Ocse: una bassa occupazione femminile è un pesantissimo freno alla crescita.
Le analisi Eurostat sono recenti ma in questi mesi, come lei dice, anche da altri Osservatori autorevoli sono arrivate stime e valutazioni preoccupanti.
Intanto è bene ricordare come questa debolezza non la scopriamo certo oggi. La pandemia ha aggravato e ampliato uno stato di cose. Già nei mesi scorsi l’allarme lo avevano lanciato le Consulenti del lavoro, avvertendo come tra aprile e settembre fossero 402mila i posti di lavoro persi dalle donne in Italia a causa della pandemia. Poi sono arrivati i dati congiunturali Istat di dicembre: 101mila lavoratori in meno registrati a fine 2020, di cui 99mila donne. Quindi la perdita rilevante di lavoro femminile è stata confermata anche dalla nota congiunta Banca d’Italia-Ministero del Lavoro, che ha indicato come tra marzo 2020 e febbraio 2021 i posti di lavoro delle donne, a differenza di quelli maschili aumentanti per 44mila unità, fossero diminuiti di 76.000 unità, con 120.000 posizioni in meno; e quanto sulla minore partecipazione delle donne incidesse anche le difficoltà di conciliazione tra attività lavorativa e carichi familiari. In ultimo, il milione di posti di lavoro perduti nel 2020, stime Istat, e l’altissima percentuale di imprese che ritiene compromessa la possibilità di sopravvivenza: due dati che, se incrociati, sono significativi soprattutto per l’occupazione femminile. Posti di lavoro perduti, si badi bene, nonostante il blocco dei licenziamenti, segno evidente che quanto a lavoro delle donne c’è una doppia fragilità, dovuta ai segmenti coinvolti, dal manifatturiero ai servizi; alle tipologie contrattuali; alla difficoltà e in alcuni casi impossibilità della conciliazione tempi di vita-tempi di lavoro.
Elemento che proprio i dati Eurostat portano in prima linea.
Senza possibilità di equivoci. Il nostro Paese è al 63esimo posto su 153 nelle classifiche relative al divario di genere. Una donna su due non lavora, e quelle che lavorano guadagnano in media il 9% in meno dei colleghi uomini.
Tempi di vita-tempi di lavoro. Può essere lo smart working una delle soluzioni?
A sentire le donne che in questi mesi hanno lavorato da casa, sembrerebbe di no. La soluzione è una sola: politiche attive. Per le donne e le nuove generazioni soprattutto, e per consentire la permanenza sul mercato del lavoro di chi il lavoro lo perde. Ma andiamo con ordine. Se il lavoro agile o lavoro a distanza è considerato uno strumento che può contribuire alla conciliazione, lo è perché aiuta a tenere insieme vita e lavoro: riducendo per esempio gli spostamenti per un’organizzazione più flessibile del tempo, o anche introducendo modalità più flessibili nella gestione del lavoro, sostiene e agevola la presenza delle donne e le loro prospettive di carriera. In questi mesi invece abbiamo registrato, proprio a causa della pandemia, una sovrapposizione e una confusione tra smartworking e telelavoro, con una diffusione a tappeto non del primo ma del secondo, molto più rigido. Il rischio evidente è di riportare le donne decine di passi indietro, rinchiudendole in un ambito esclusivamente domestico, a quel punto tornando ad essere divise tra cura della casa, cura dei figli, gestione della didattica a distanza, qualità dell’impiego, legittime aspirazioni professionali. La conferma ci viene peraltro da una indagine Inps condotta tra agosto e settembre 2020: le donne che scelgono di lavorare da casa si sentono cristallizzate nella tradizionale divisione dei ruoli all’interno delle famiglie, con risultati critici quanto a benessere, produttività, prospettive di lavoro professionale. Il che come si intuisce non agevola e determina una distribuzione impari dei vantaggi e degli svantaggi, tanto da piacere, ci dice l’indagine, soprattutto agli uomini.
Significherebbe un passo indietro pericolosissimo.
Che non possiamo né vogliamo subire. Andrebbero in fumo anni e anni di battaglia e di impegno delle donne e delle forze politiche più avvedute e riformiste. Meno autonomia e libertà delle donne significa rischio di maggiore violenza di genere, anche domestica, meno possibilità di autodeterminarsi nelle scelte; una società più povera e più asfittica, una democrazia rachitica.
Può aiutare, secondo lei, il welfare di secondo livello, con singoli accordi nelle singole aziende?
E’ uno strumento sicuramente utile e importante ma qui c’è bisogno di una strategia complessiva e di nuovi innovativi strumenti per favorire l’ingresso e la permanenza delle donne nel mercato del lavoro in tutti i settori produttivi. L’accordo siglato tra Autostrade per l’Italia e parti sociali che riconosce ai lavoratori delle società in smart working e con figli occupati nella didattica a distanza di potersi staccare temporaneamente dalle connessioni di computer e telefonino per seguire i figli è un segnale interessante che aiuta appunto a mettere a fuoco la contraddizione e la difficoltà in cui si dibattono soprattutto le donne. Noi dobbiamo essere capaci di affrontare e dirimere quella contraddizione. Se la pandemia porterà ancora donne, soprattutto, e uomini a lavorare da casa, sarà obbligatorio affinare e integrare gli strumenti e i perché la conciliazione vita – lavoro, anche nelle case, e finché l’emergenza sanitaria lo rende necessario, sia a misura di donna. Di tutte le donne, e quindi con una flessibilità delle opzioni e un ampio raggio delle soluzioni.
Sta pensando alle ricadute positive che avrà il Family Act? Il Family Act è uno degli strumenti strategici e in questo il passaggio dei Decreti attuativi sarà determinante, al Governo e nel Parlamento. L’obiettivo che abbiamo è la messa in campo di una tastiera ampia e flessibile, capace di rispondere pienamente ai bisogni delle donne e al diritto di una totale conciliazione vita-lavoro. Piena occupazione, sostegno familiare, incentivi al lavoro femminile, pari dignità e pari opportunità sono obiettivi irrinunciabili. Per le donne e per gli uomini. Che possono essere i nostri migliori alleati. La piena inclusione delle donne nel mondo del lavoro va di pari passo con la creazione di una società più inclusiva e giusta e di un nuovo welfare. Non possiamo aspettare e mai come in questo caso bruciare le tappe è una priorità assoluta per il Paese.
Che libro (romanzo, poesia, saggio o altro) consiglia a chi vuol approfondire il complesso rapporto tra donne e lavoro o, più in generale, addentrarsi nell’universo femminile.
Le posso dire quello che sto leggendo in questo momento e che sto trovando bello e coinvolgente: “Il cambiamento che meritiamo”, di Rula Jebreal. Bello perché Rula mette a fuoco il valore e la forza dell’alleanza e delle reti tra donne, che “insieme possono” e perché focalizza quella verità che ognuna di noi custodisce ma che magari non riusciamo a dire con nettezza, specialmente quando si è vittime di violenza, fisica o meno: noi meritiamo il cambiamento. Che è fatto delle storie di ognuna e di come siamo capaci di farle circolare. Mi ha colpito molto una citazione da Chimamanda Ngozi Adichie: “raccontare un’unica storia crea stereotipi. E il problema degli stereotipi non è tanto che sono falsi ma che sono incompleti: trasformano una storia in un’unica storia”.
A cura di Maria Pia Romano