Il calcio in crisi ha partorito il topolino. Ci saremmo aspettati qualcosa di più e di meglio dal “gota” del calcio. Milan, Inter, Juve, Atletico Madrid, Barcellona, Real Madrid, Manchester United, Manchester City, Chelsea, Tottenham, Liverpool, i dodici club fondatori della “SuperLega”. Nelle intenzioni dovrebbero aggiungersi altri tre club e cinque dovrebbero partecipare ogni anno secondo un criterio di ammissione ancora sconosciuto.
Ognuno è libero di ritenersi il più bravo, il più buono, il più bello, così come è legittimo che una società privata ricerchi nuovi mercati, nuove forme di business, nuovi partner, nuove idee per ottenere il massimo dal prodotto che propone. Sicuramente questi club sono tra i più attrattivi, a livello mondiale, per quelle aziende che vogliono fare business con il calcio. Nessun giudizio morale ma solo qualche riflessione, dopo che il progetto sembra essersi arenato.
La prima, etica ed estetica: era necessario questo cinismo e fare questo annuncio proprio ora che da tutte le parti si richiede solidarietà di cui più che mai si ha bisogno? Proprio adesso che sembrava vedersi uno spiraglio di luce all’orizzonte, dopo un lungo periodo di buio, e ci si sta preparando ad una ripresa in cui etica ed estetica giocano un ruolo importante per ridisegnare un mondo migliore e più bello? Anche il calcio deve assumersi qualche responsabilità? Quante volte i ragazzi, alla playstation, hanno anticipato la “SuperLega” sfidandosi e scegliendo le squadre più forti d’Europa? I più bravi sanno come far nascere un desiderio, stimolare la fantasia, regalare un sogno, far percepire che non se ne può fare ameno e da li costruire le proprie fortune. E i sogni? pazienza, business is business.
“Il campione diventa, per forza di cose un modello di ispirazione per altri, una sorta di musa ispiratrice, un punto di riferimento” (Papa Francesco). Di solito sono i più forti che aiutano i più deboli, come si possono buttare a mare solo per viaggiare più comodi? Il fatto che le magliette dei ragazzi siano, in questo momento, pulite e stirate in un cassetto in attesa di essere tirate fuori, non significa che abbiano smesso di sognare di giocare, un giorno, in una di queste dodici squadre o sfidarle giocando nel Foggia, nel Benevento, nel Crotone, nel Bari, nella Roma, nel Napoli, nell’Atalanta, nel Monza, nel Torino, nel Genova, nel Palermo eccetera eccetera eccetera e, chissà, vincere, perché lo sport è anche questo se non solo questo. Non si può dire ad un bambino tu mettiti da parte perché gioco io che ho deciso che sono il più bravo, il più buono, il più bello. Se anche fosse vero, non verrebbe fuori una bella partita. La possibilità di partecipare non può essere data dai soldi perché chi non li ha smetterebbe di credere di poterci arrivare, nel calcio come nella vita, mettendocela tutta, guardando e riguardando Davide contro Golia.
Lo sport è sempre stato quell’angolo della vita dove la solidarietà, l’integrità, la lealtà, l’inclusività sono stati alla portata di tutti non solo dei più ricchi, i più fortunati, quell’angolo in cui tutti si possono sentire ugualmente importanti. All’inizio di una gara si parte alla pari, stesso numero di giocatori, stesse regole, stessi strumenti, nessuno parte sconfitto ed è questo che rende la sfida emozionante e serve ai talenti per esplodere. Quante volte abbiamo sentito, da ogni parte, nessuno si salva da solo, o ci salviamo tutti o non si salva nessuno. E allora perché? Nel calcio il gol, il momento più importante, si festeggia abbracciandosi mica scappando ognuno per la sua strada.
ANTONIO CAIVANO